«Ora tutta la terra era di un labbro solo e di uguali parole; e
avvenne, nel loro vagare dalla parte di oriente, che gli uomini trovarono una
pianura nel paese di Sennar, vi si stabilirono e si dissero l’un l’altro: “Orsù
facciamoci dei mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro invece
della pietra e il bitume invece della malta. Poi essi dissero: “Orsù
costruiamoci una città con una torre la cui cima sia nei cieli e facciamoci un
nome per non essere dispersi sulla superficie di tutta la terra”. Ma il Signore
discese per vedere la città con la torre che stavano costruendo i figli
dell’uomo. E il Signore disse: “Ecco che essi sono un solo popolo e un labbro
solo è per tutti loro. Questo è il loro inizio nelle imprese. Ormai tutto ciò
che hanno meditato di fare non sarà loro impossibile. Orsù discendiamo e
confondiamo laggiù la loro lingua, cosicché essi non comprendano più la lingua
l’uno dell’altro”. Il Signore li disperse di là sulla superficie di tutta la
terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo il suo nome fu detto
Babele, perché là il Signore mescolò il labbro di tutta la terra; e di là il
Signore li disperse sulla superficie di tutta la terra.» (Genesi 11, 1-9)
Due parole a
commento di questo brano.
Regola
fondamentale nella lettura di un testo è leggerlo all’interno del suo contesto.
Il cap. 11 viene dopo il cap. 10, nel quale, a proposito della nuova creazione
seguita al diluvio universale, vi è l’elenco delle oltre settanta nazioni in cui
vengono separati gli uomini. Si tratta delle popolazioni discendenti da Iafet,
ognuna nei propri territori e secondo la propria lingua, di quelle discendenti
da Cam e di quelle discendenti da Sem. Il filo conduttore del racconto è la
diversità voluta da Dio, che già si trovava nel racconto della creazione di Gen.
1, in cui il verbo ricorrente è, non a caso, «separare». Si confrontino i testi:
«Dio disse: “Produca la terra animali
viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici
della terra, secondo la loro specie”» (Gen 1,24) e «Questi sono i figli
di Sem, secondo le loro famiglie, secondo le loro lingue, nei
loro paesi, secondo le loro nazioni. Queste sono le famiglie dei
figli di Noè, secondo le loro generazioni, nelle loro nazioni; da
essi uscirono le nazioni che si sparsero sulla terra dopo il diluvio.» (Gen
10,31-32).
In questo
contesto, le linee di interpretazione della pericope di Babele, sia nella
tradizione ebraica sia in quella cristiana, sono due: la prima, più accreditata
fino a poco tempo fa, vede l’episodio di Babele in un’ottica punitiva, mentre la
seconda considera la diversità come caratteristica voluta da Dio e la divisione
delle lingue come una benedizione, anziché un castigo. L’azione degli uomini
nella città è la seguente: facciamoci dei mattoni, costruiamoci
una città, facciamoci un nome. Si tratta in sostanza di un peccato
originale, da intendersi non tanto come un peccato che sta all’inizio
cronologico, ma come un peccato di principio, un peccato intrinseco all’uomo,
quello cioè di volersi porre sullo stesso piano di Dio. Come la prima coppia
vuole diventare come Dio, così qui gli uomini vogliono costruire una città
per se stessi e farsi un nome per se stessi: opponendosi al disegno
di Dio, che ha creato la diversità (cap. 10), gli uomini hanno una sola
lingua, un solo nome per la propria gloria. Anziché rendere gloria
a Dio, essi rendono gloria al proprio nome; pertanto la discesa del Signore
sulla terra, nel suo intento di confondere le lingue e di ricreare la
differenza, non è da leggersi come un castigo, ma come un intervento di Dio che,
fedele a se stesso e alla propria opera creatrice, ricostituisce la differenza
originaria. Che non si tratti di un’interpretazione bizzarra, lo dimostra
l’inizio del cap. 12, quando il Signore dice ad Abramo: «Va'
via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va'
nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti
benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò
quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette
tutte le famiglie della terra» (Gen 12,1-3). È evidente la contrapposizione tra
l’autodeterminazione degli uomini di Babele (facciamoci, costruiamoci)
e l’eterodeterminazione di Abramo (vai dove io ti mostrerò).
Il mio intervento
prenderà spunto proprio dal racconto di un tentativo di un gruppo umano di
costruire una torre per affermare se stesso e della conseguente confusione delle
lingue indotta in questo gruppo dall’intervento divino, per evitare
un’affermazione che andasse oltre le prerogative umane. È noto che,
nell’immaginario collettivo, questo racconto viene posto a fondamento della
contraddizione che noi, in quanto esseri umani, viviamo dal punto di vista
linguistico: da un lato, il linguaggio umano come fenomeno unitario che
caratterizza tutti gli esseri umani, dall’altro, l’estrema varietà delle lingue
umane, così come ci appaiono nel contatto tra i diversi popoli.
Tenendo presente
questi due aspetti della questione, svilupperò un percorso di riflessione che si
focalizzerà, da una parte, sull’aspetto dell’universalità (a.-b.)
e, dall’altra, sull’aspetto della varietà (c.); alla fine
arriveremo a un paradosso (d.), legato molto bene alla vicenda di Babele
vista come benedizione, che tutti stiamo vivendo, cioè un possibile ritorno a
Babele nell’arco di circa 150 anni.
a.
L’organizzazione della grammatica: Universali e Tipologia
Riferimenti bibliografici:
Comrie, Bernard, 1983, Universali
del linguaggio e tipologia linguistica, Bologna, Il Mulino; Ramat, Paolo /
Cristofaro, Sonia (a cura di), 1999, La tipologia linguistica, Roma,
Carocci.
L’aspetto
prebabelico delle lingue, quello dell’universalità, lo si può cogliere nel fatto
che, al di là della loro estrema varietà, tutte le lingue sembrano rispondere ad
una serie di principi imprescindibili in base ai quali sono strutturate e che
permettono a tutti gli esseri umani di apprendere una lingua diversa da quella
madre. Alcuni di questi principi sono assoluti, cioè valgono universalmente per
tutte le lingue, altri sono invece implicazionali, cioè mettono in relazione di
implicazione alcune caratteristiche della grammatica.
1. Un esempio di
universale assoluto è il fatto che tutte le lingue hanno vocali orali,
cioè suoni prodotte attraverso la bocca e non attraverso la cavità nasale; se
alcune, come l’italiano, hanno solo vocali orali, mentre altre, come il
francese, hanno sia vocali orali sia vocali nasali, non sono attestate lingue
che abbiano solo vocali nasali, pur non essendoci, di per sé, nessun impedimento
fisico per la loro pronuncia. Riassumendo:
a. Lingue con
solo vocali orali, p. es. italiano [i e
a ± o u]
b. Lingue con
vocali orali e nasali, p. es. francese [m]
mes “miei”, main “mano”
c. Lingue con
solo vocali nasali: non attestate.
2. Il secondo
tipo di principi è sicuramente più pregante per la costituzione delle lingua.
Gli universali implicazionali limitano la possibilità di variazione
linguistica, ponendo delle limitazioni ai tipi di lingua logicamente possibili.
Ci sono lingue, per esempio, che hanno come ordine dominante della frase la
disposizione Verbo, Soggetto, Oggetto (VSO): mentre in italiano si dice:
“Pierino mangia la mela”, queste lingue dicono: “Mangia Pierino la mela”. Questo
genere di lingue ha sempre delle preposizioni (es. “in casa”). Correlando queste
caratteristiche, cioè i diversi tipi di ordine delle parole e la presenza o meno
di preposizioni, si ottiene lo schema seguente:
VSO Preposizioni
Tipi di lingue (esempi)
+ +
verbo iniziale e preposizioni gallese, arabo)
+ -
verbo iniziale e posposizioni: non attestato
- +
SVO, SOV e preposizioni (italiano, persiano)
-
- SVO, SOV e posposizioni (finnico, giapponese)
Come si vede, ci
sono diversi tipi di combinazione, ma una di queste è necessariamente esclusa:
ci sono lingue che dicono “Mangia Pierino la mela in casa” (gallese, arabo
classico), altre che dicono “Pierino mangia la mela in casa” (italiano), altre
ancora “Pierino la mela mangia in casa” (persiano), altre “Pierino mangia la
mela casa in” (finnico), altre infine “Pierino la mela mangia casa in”
(giapponese), ma non c’è nessuna lingua che riesce a dire “Mangia Pierino la
mela casa in”.
Queste
considerazioni, apparentemente stravaganti, sono un indizio del fatto che la
confusione babelica non poi così confusa, ma ha delle linee di restrizione che
non rendono il tutto anarchico.
3. Gli universali
implicazionali, se metodologicamente verificati, permettono di riconoscere tra
le lingue alcuni tipi armonici di ordinamento dei costituendi della frase, che
possono essere così identificati:
a)
Verbo Oggetto, Nome Aggettivo, Nome Genitivo,
Preposizione Nome, Nome Relativa
b) Oggetto
Verbo, Aggettivo Nome, Genitivo Nome, Nome Posposizione,
Relativa Nome
Secondo questo schema, si trovano
sempre le stesse disposizioni della parte fondamentale di un costituente della
frase e dei suoi modificatori (le specificazioni). “Mangiare” ha un significato
ampio, “mangiare una mela” ha un significato più ristretto (una mela è
una specificazione); l’italiano dice “mangiare una mela”, altre lingue dicono
“una mela mangiare” (giapponese). Le lingue che dicono “mangiare una mela”
(punto a) tendono anche a mettere l’aggettivo dopo il nome (“casa grande”),
il complemento di specificazione dopo il nome (“casa di Giovanni”), la
preposizione prima del nome (“in casa”), le relative dopo il nome (“la
casa che hai visto ieri”); le lingue che hanno come schema di base “una
mela mangiare” (punto b) fanno esattamente il contrario (“bianca
casa”, “Giovanni di casa”, “casa in”, “hai visto che la
casa”).
Tutto ciò è
legato a strategie di processing (decodificazione) dei messaggi
linguistici, per cui la strategia di base è quella di aspettarsi che lo
specificante venga prima dello specificato o viceversa; i bambini giapponesi che
usano un lingua di tipo b imparano la loro lingua materna nelle stesse
condizioni e nelle stesse sequenze temporali (entro i 3-4 anni) dei bambini
italiani che usano una lingua di tipo a. Non ci sono dunque grosse differenze
cognitive, e anche questo sembra un riflesso prebabelico.
4. Per dimostrare
che questi tipi armonici si possono considerare -per così dire- come i piani
segreti di Babele, porto ad esempio l’uso della frase relativa nel turco e nel
basco, due lingue che organizzano la frase secondo il tipo b. Si tratta di
lingue che non discendono dalla stessa origine e che non hanno mai avuto
contatti tali da far pensare ad una possibile influenza reciproca (il turco è
arrivato in Europa nel Medioevo, mentre il basco è la più antica lingua europea,
precedente addirittura la indoeuropeizzazione dell’Europa).
a) Turco
Hasan-in Sinan-a ver-dig-i
patates-i yedim
Hasan-di Sinan-a dare-participio-mio
patata-accusativo mangiai
“Mangiai la patata che Hasan diede a Sinan”
b) Basco
Gizona-k emakumea-ri eman
dio-n liburua
uomoil-ergativo donna-a dato
ha-relativo libro
“Il libro che l’uomo ha dato alla donna”
Nel turco, il termine patates-i
è messo prima della testa della frase relativa; il basco mette liburua a
fine frase e la specificazione relativa è spostata prima (“l’uomo ha dato alla
donna che”). Si vede come le regolarità di costruzione delle grammatiche delle
lingue rispondano alla nostra predisposizione cognitiva alla comunicazione
linguistica e come, allo stesso tempo, pongano delle restrizioni alla confusione
delle lingue.
b. L’acquisizione delle lingue
Riferimenti bibliografici:
Cook, Vivien J., 1990, La
grammatica universale, Bologna, Il Mulino;
vari lavori di Noam Chomsky e del
generativismo;
Bickerton, Derek, 1981, Roots of
language, Ann Arbor, Karoma.
I principi che
regolano la costruzione della grammatica possono essere visti, in linea di
massima, come il risultato dei processi di acquisizione delle lingue. Sono state
fatte diverse ipotesi collegate con gli studi sugli universali.
1. In primo luogo
consideriamo l’apprendimento delle lingue prime, quelle che i bambini imparano
spontaneamente da chi si prende cura di loro. Secondo un’ipotesi forte, che fa
capo a Noam Chomsky, nel nostro patrimonio genetico si troverebbe una sorta di
Grammatica Universale, estremamente astratta, la quale sarebbe costituita da
principi di strutturazione di validità generale, che non variano tra lingua e
lingua, e da parametri, aspetti di struttura che, viceversa, possono variare tra
le lingue. In sostanza, nel nostro patrimonio genetico sarebbe già compresa la
contraddizione babelica: da una parte avremmo in noi la condizione prebabelica,
quella dei principi, e dall’altra l’espansione postbabelica, quella dei
parametri.
I principi
di strutturazione, estremamente astratti e generali, che possono corrispondere
agli universali assoluti di cui punto a.1, ci dicono, quando siamo
bambini: intorno a te cerca una lingua che abbia vocali orali. Dentro il nostro
patrimonio genetico, inoltre, ci sarebbero principi tali per cui una lingua
ricorre a certi spostamenti di parole all’interno della frase, ma non
esprimerebbe mai certi significati operando solamente sullo spostamento di
parola: per esempio, non ci sarebbe nessuna lingua che, per negativizzare una
frase cominci dall’ultima parola per poi tornare indietro, per cui, se si dice
“la casa è bella”, non si potrebbe dire, per esprimere la negazione, “bella è
casa la”.
I parametri,
invece, sono stati paragonati ad una sorta di interruttore con due posizioni: il
bambino, grazie ai parametri, osserva la lingua che viene parlata intorno a lui
e «setta», fissa l’interruttore, in base alle caratteristiche della lingua. Un
esempio di ciò l’abbiamo già visto al punto a.3: i due tipi armonici
corrispondono a due diversi «settaggi» del parametro (si chiama «parametro della
testa»), per cui il bambino impara che tutto ciò che specifica viene prima o
dopo e quindi accende o spegne l’interruttore. Un altro parametro molto studiato
è quello del «soggetto nullo», che differenzia ad esempio l’italiano
dall’inglese: il bambino assorbe la necessità che una frase abbia un soggetto -
come in inglese - oppure verifica che può farne a meno - come in italiano.
2. Una seconda
ipotesi, più legata a dati empirici, ancorché non direttamente osservabili, è
quella propugnata da Derek Bickerton, chiamata «ipotesi del bioprogramma
linguistico». Secondo questa ipotesi, ci sarebbe un vero e proprio programma
biologico che determina la forma assunta dalla lingua. Questa teoria si avvicina
solo in parte a quella precedentemente enunciata. Qui vengono osservate le
cosiddette lingue “creoli”, sorte in diverse parti del mondo in seguito
all’imperialismo europeo, a partire dal XV sec., e ai due o tre secoli di
schiavismo e di deportazione dall’Africa verso le Americhe. In queste
drammatiche situazioni, si venivano a trovare mescolate persone di provenienza e
lingue diverse (una vera e propria situazione babelica), che in qualche modo
dovevano pur comprendersi. L’unica soluzione era assumere quel poco che
riuscivano a comprendere del linguaggio dei colonizzatori. Una volta arrivati
nelle Americhe e ritornati ad una situazione familiare, da queste persone sono
nati bambini i quali non avevano un modello a cui fare riferimento
nell’apprendimento della lingua, in quanto i genitori si esprimevano in una
lingua rudimentale. Questi bambini cioè non avevano la possibilità di correggere
i propri errori. L’osservazione di queste lingue -secondo Bickerton- permette di
valutare il “decantato” della nostra capacità linguistica. Di fatto queste
lingue, che vengono tuttora parlate, hanno una struttura grammaticale molto
simile, nonostante derivino da un retroterra lessicale e storico diverso. Il
bioprogramma sarebbe quindi responsabile delle somiglianze tra i creoli nate in
seguito all’espansione coloniale europea. Esso programmerebbe, tra le altre
cose, la distinzione semantica tra stati (p. es. “essere biondo”) e
processi (p. es. “camminare”, “mangiare”). In tutti i creoli la base
lessicale dei verbi di stato è sempre intesa al presente, mentre quella dei
verbi di processo è sempre intesa al passato (p. es., nel saramaccano, lingua
creola del Suriname, Mi njàn, “io mangiare”, viene interpretata come “io
mangiai”, mentre Mi lòbi, “io amare”, significa “io amo”).
Un caso analogo
lo si può verificare anche nell’apprendimento spontaneo delle lingue straniere
(o seconde), da parte di immigrati, che le imparano per la strada. Anche qui si
può ritrovare uno stadio di apprendimento molto precoce, che in molti casi
rimane tale, estremamente semplice dal punto di vista grammaticale, ma efficace
dal punto di vista comunicativo, stadio che Wolfgang Klein, uno dei maggiori
studiosi europei di questi fenomeni, ha chiamato basic variety, cioè
“varietà di apprendimento basica”, che sembra ritrovarsi secondo gli stessi
principi nonostante la lingua diversa che si impara.
c. La diffusione delle lingue nel
mondo: genetica delle popolazioni e archeologia
Riferimenti bibliografici:
Cavalli-Sforza, Luigi Luca, 1996,
Geni, popoli e lingue, Milano, Adelphi;
diversi contributi in Longobardi,
Giuseppe (a cura di), Le lingue del momdo, Quaderni de “Le Scienze”, 108;
Nettle, Daniel, 1999, Linguistic
diversity, Oxford, Oxford University Press.
1. Dopo aver
considerato le lingue dal punto di vista della loro unitarietà e delle
limitazioni che la varietà linguistica possiede grazie a questi principi che
sottendono alla costruzione della grammatica e che sono ancorati nei processi di
acquisizione delle lingue, possiamo ora valutare ciò che è successo nella
dispersione post-babelica. A questo riguardo, ci sono diverse ricerche che vanno
intensificandosi e risultati ottenuti indipendentemente in anni passati che
vanno ora integrandosi. Essi derivano da diversi settori: quello della genetica
delle popolazioni umane, quello dell’archeologia, quello della paleoetnografia e
quello dell’antropologia. In base ai risultati integrati di questi studi,
possiamo immaginare la diffusione delle lingue nel mondo, a partire
approssimativamente da 50.000 anni, secondo queste tappe:
1. Prime migrazioni: a. Khoisan (Africa
meridionale); b. Nilo-sahariano; c. Caucasico; d. Austrico (penisola
indocinese); e. Indo-pacifico; f. Australiano (lingue aborigene); g. Amerindio
(America centro-meridionale).
2. Diffusione dell’agricoltura: a. Niger-Kordofniano (di cui fa
parte la sottofamiglia bantu); b. Camito-Semitico; c. Indoeuropeo; d.
Elamo-Dravidico (India meridionale); e. Sino-Tibetano (fra cui il cinese); f.
Austronesiano.
3. Dispersione recente per cambiamenti climatici: a. Uralico (di
cui fa parte il finnico e l’ungherese); b. Chukchi-kamchadal (estremo oriente
siberiano); c. Eskimo-Aleutino (America settentrionale); d. Na-Dene (Canada-Stati
Uniti, p. es. il navajo).
4. Dominanza di élite: a.
Altaico; (b. Indoeuropeo orientale).
Le prime
migrazioni dall’Africa (1), ormai accettate da tutti come la fonte del
genere umano, avrebbero dato origine alle lingue riportate in 1a-g.
Questa situazione si sarebbe protratta per circa 40.000 anni.
In seguito (2),
si sarebbe verificata una nuova ondata di diffusione linguistica, diversa dalla
precedente, collocabile nel neolitico. La principale fonte della creazione di
nuove famiglie linguistiche sembra sia stata la diffusione dell’agricoltura. Si
tratta delle lingue riportate in 2a-f.
A queste
lingue si sarebbero aggiunte, più recentemente, a seguito di una favorevole
mutazione climatica, lingue parlate prevalentemente nell’estremo nord, riportate
in 3a-d.
Esiste infine un
ultimo modello di diffusione linguistica, più limitato e più recente, cioè
lingue che si sarebbero diffuse tramite imposizione linguistica da parte di
piccoli gruppi di pastori nomadi. Il latino, che ha dato origine alle lingue
romanze, è un esempio di diffusione a dominanza di élite, così come l’arabo che
si è diffuso dalla penisola arabica in tutta l’Africa settentrionale e, nel
Medio Evo, anche in Spagna e in Sicilia.
2. Tutte le
vicende storiche che hanno portato alla diffusione e alla diversificazione delle
lingue nel mondo quanto più lontane erano dal territorio di irradiazione,
vengono ora inserite in uno schema coerente di spiegazione della diversità
linguistica in Linguistic diversity di Daniel Nettle. Questo schema,
definito “teoria del rischio ecologico”, mette in relazione la diversità
linguistica con il tipo di clima e di organizzazione sociale ed economica delle
società agricole pre-industriali e delle società di cacciatori-raccoglitori.
Facendo per esempio riferimento alla Nuova Guinea o al territorio fra savana e
deserto nell’Africa Occidentale, egli sostiene che quanto più una comunità può
disporre nella propria nicchia ecologica di tutto ciò di cui ha bisogno (per cui
non c’è l’aspettativa di lunghi periodi di mancanza di cibo) tanto meno essa
tenderà ad avere rapporti con altre comunità. Viceversa, quando questa
condizione non sussiste, i rapporti tra comunità vicine sono più frequenti, al
fine di favorire gli scambi di prodotti. Ciò spiegherebbe il motivo per cui la
maggiore varietà linguistica attualmente si trova concentrata nella fascia
equatoriale. Questo discorso vale solo fino al periodo precoloniale e
pre-industriale, perché la rivoluzione industriale sta provocando nella
diffusione linguistica una rivoluzione pari (sia pure con le debite proporzioni)
a quella che è avvenuta, durante il neolitico, a seguito della diffusione
dell’agricoltura. Ed è qui che giungiamo al paradosso che ha citato all’inizio.
d. Un paradosso: ritorno a
Babele?
Le lingue insidiate
Riferimenti bibliografici:
Grenoble, Leonoire A. / Whaley,
Lindsay J. (eds.), 1998,
Endangered languages: language
loss and community response,
Cambridge, Cambridge University Press;
Dixon, R.M.W., 1997, The rise and
fall of languages, Cambridge, Cambridge University Press.
La rivoluzione
industriale, permettendo uno stile di vita poco rischioso dal punto di vista
ecologico, con un’aspettativa di abbondanza di cibo pressoché perenne, attrae
molti gruppi di popolazioni, che tendono a diventare parte dei gruppi che
guidano la rivoluzione industriale. Accanto a ciò, si deve aggiungere che il
progresso tecnologico, il mettere per iscritto la lingua per rapporti a vasto
raggio crea una minore utilità di alcune lingue. Sembra che ci sia una perdita,
sempre più drammatica, di un certo numero di lingue “insidiate”.
Questa situazione
è valutata con estremo pessimismo anche dalle stime più realistiche. Possiamo
partire da un numero di circa 5273 lingue (di cui 4794 parlate e 479 estinte),
valutate per eccesso dal manuale di classificazione di M. Ruhlen. Questo numero
è in rapido decremento: le stime parlano di 12-15 lingue in meno ogni anno.
Anche tenendo conto delle stime più ottimistiche, tra dieci anni il patrimonio
linguistico sarà ridotto del 10% e alla fine del XXI secolo le lingue parlate
saranno solamente 100: saranno, molto probabilmente, le lingue che hanno una
forma scritta, il maggior numero di parlanti e una solida potenza economica e
politica alle spalle. Qualcuno dice addirittura che si arriverà ad avere al
massimo due lingue parlate in tutto il mondo.
Si tratta di una
perdita simile a quella che si lamenta per varie forme di flora e di fauna, una
perdita che va nella direzione di un venire meno di una ricchezza della
creazione. Pertanto, chi ci seguirà nel prossimo millennio se parlerà con un
solo labbro, lo farà a scapito dell’intenzione divina iniziale.
Conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti La
Porta il 22 novembre 1999
Testo ripreso dalla registrazione e da appunti dell’Autore,
non rivisto dall’Autore
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